Nel dicembre 2007 la fotografa Messicana è stata gradita ospite di Su Palatu con cui ha collaborato per la realizzazione della mostra “Il Bagno di Frida” presentata al Castello Siviller di Villasor.
Per ricordare il lavoro condotto insieme e per festeggiare la recente premiazione, Graciela Iturbide ci ha rilasciato questa intervista dove racconta di sè, del Messico, della fotografia e del bisogno di mistero e ritualità che guida i suoi scatti
Ha dichiarato più volte che il suo maestro è stato Alvarez Bravo. Com’è avvenuto il vostro incontro? Qual è il più grande insegnamento, umano e artistico, che le ha lasciato?
Ho iniziato il mio percorso formativo all’Universidad Nacional Autonoma de Mexico, dove entrai per studiare cinema alla scuola di cinematografia. Lì conobbi Manuel Alvarez Bravo. Non solo potei frequentare il suo corso, ma lo seguii fino a che sono diventata la sua “achichincle”, che in Messico è il nome che si usa per indicare l’assistente. Ho imparato molto da Alvarez Bravo e non solo sulla fotografia ma soprattutto sulla cultura (letteratura, musica, arte popolare etc). È stato un maestro in tutti i sensi. Il mio rapporto con lui fu molto profondo; ho avuto l’opportunità di stargli vicino, frequentare la sua famiglia. Non è stato un professore, mai; è stato un maestro nel senso più completo della parola. Mi diceva sempre che per fare fotografie dovevo leggere le istruzioni della Kodak e che questo era sufficiente.
Quali altri maestri hanno avuto un’influenza importante nel suo percorso?
Ho avuto vari maestri a seconda del periodo. Christer Stromholm, che è uno dei miei fotografi preferiti, mi regalò due foto che adoro. A lui ho dedicato il mio libro edito dalla Fondazione Hasselblad in Svezia, suo paese d’origine. Mi sono sentita molto influenzata da Robert Frank, da Tina Modotti quando la incontrai e, naturalmente, da Alvarez Bravo, Cartier Bresson, Lartigue, Eugene Smith. Brassaï, che è uno dei fotografi decisivi nella mia vita, disse una frase che da molto tempo ispira il mio lavoro: “La vita non può essere catturata né dal realismo né dal naturalismo, ma solo dal sogno, dal simbolo o dall’immaginazione.” Nella vita tutto è legato dal dolore; l’immaginazione dotrebbe servire per dimenticare la realtà.
Un fotografo ha necessariamente un rapporto particolare con il concetto di tempo; concetto attraverso cui è possibile declinare le varie identità, come comunità e singoli individui.
Maneul Alvarez Bravo mi rivelò un tempo poetico e messicano, com’era il suo. Mi diceva “Graciela, non c’è motivo di avere fretta, hay tiempo. Non ci si deve precipitare per esporre, ci si deve lavorare molto.” Per tutto il tempo che l’ho accompagnato mi ha dato l’opportunità di stargli vicino, di vedere come lavorava, di andare a comprare libri con lui, di ascoltare musica con lui, la musica di Bach. Mi ha aperto un mondo intero e, soprattutto, questo tempo così poetico e messicano mi ha segnato.
Provenire “dal sud del mondo” significa, per certi versi, esser cresciuti con un senso molto forte del mistero, della casualità e della magia del quotidiano, della vita.
Semplicemente vivo in Messico dove mi imbatto spesso nei simboli della mia cultura. Questo mi piace e, quando li incontro, cerco di catturarli con la mia macchina fotografica.
In un saggio intitolato "Todos Santos, Día de Muertos", Octavio Paz, parlando dei messicani, dice “Somos un pueblo ritual”. Pensandoci bene, anche la fotografia è un rituale: scartare la pellicola, introdurla nella macchina, accostarsi silenziosamente ai soggetti…sembrano passaggi di un danza sacra che un fotografo ripete 1000 volte nella vita ma sempre con la stessa cura e attenzione. Da donna, messicana e fotografa, qual è il suo rapporto con la ritualità?
Per me il rituale è ciò che salva l’uomo, l’umanità. È l’unica forma per dimenticare il quotidiano. Per esempio, in India, il rituale aiuta a piangere ma anche a donare dignità. Nei gaths di cremazione di Lucknow, sebbene ci fosse dolore, il rituale stava lì per aiutare la gente a togliere la vita con dignità. Non so se sono nel giusto, ma io la vedo così. Forse mi ha segnato l’educazione religiosa che ho ricevuto. Quando ero bambina, per allontanarmi dalla mia famiglia, andai in un convento di suore; era un ambiente di travestimenti che ritorna spesso nel mio lavoro: la morte, il travestimento, Giano con le sue due maschere… Non pretendo di mitizzare gli indigeni, come molta gente crede; quello che mi piace è il loro modo di mitizzare il quotidiano. Forse, in fin dei conti, la fotografia è per me un rituale. Partire con la macchina fotografica, osservare, prendere la parte più mitizzata dell’uomo, entrare nell’oscuro, rivelare, scegliere il simbolico… Non credo in niente, però prendo i rituali delle diverse religioni. In India, una volta entrai in un tempio dove la gente stava adorando un serpente d’argento. Non so cosa significasse quel rito, però mi colpì la grotta dove filtrava appena un filo di luce.
Da cosa nasce la sua fotografia? Qual è lo stimolo, la missione che la porta a guardare il mondo attraverso le lenti di una macchina fotografica? Qual’è il filo conduttore dei suoi lavori?
L’ossessione che abbiamo noi fotografi è quella di aggirarci per il mondo con il tema che portiamo dentro.
Esattamente un anno fa, nel dicembre del 2007, ha presentato a Villasor, in Sardegna, il suo lavoro “il bagno di Frida”. Può parlarci di questo lavoro? Com’è stato confrontarsi con un mito messicano come quello della Kalo? Da fotografa ma soprattutto da donna deve essere stato intenso, energeticamente prosciugante e esaltante allo stesso tempo….
Il bagno di Frida è stato aperto dopo 50 anni. Ho avuto la fortuna di essere invitata a fotografare gli oggetti di Frida, così ho cercato di interpretarli. Non sono una sua fan però la ammiro e per me fare questo lavoro, incontrare il suo dolore è stata un’esperienza incredibile.
Dicevamo della Sardegna. Lei ha avuto modo di soggiornarci per un breve periodo. Cosa le è rimasto di quella esperienza? Umanamente ma soprattutto artisticamente che idea le si disegnata nella mente? E fotograficamente, quale immagine le è rimasta?
La mia esperienza in Sardegna è stata fantastica. Ho conosciuto persone molto interessanti, ho avuto l’opportunità di studiare la civiltà nuragica, fare molte fotografie. Il mio sogno sarebbe quello di poter tornare per fotografare tutto quello che più mi ha colpito: la terra, la pietra, i cardi etc.
È un isola che veramente mi è entrata dentro e spero, con il tempo, di riuscire a fare un gran lavoro.
A questo punto della sua attività, con premi e importanti riconoscimenti ottenuti e con consensi internazionali, quali curiosità vorrebbe ancora soddisfare o quali idee vuole tentare di affermare attraverso la fotografia?