Ma quando niente sussiste d'un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più tenui ma più vividi, più immateriali più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l'edificio immenso del ricordo
Marcel Proust
Ziyah Gafic ha vissuto una forma di delirio particolare e violenta: giovanissimo ha dovuto confrontarsi con l'esperienza della guerra. A conflitto finito, però, ha deciso di non dimenticare e ha cercato un mezzo per opporsi al lento lavorio della memoria. Al macerarsi nella passiva resa al corso degli eventi, ha preferito l'azione della testimonianza; invece del fuoco delle armi ha scelto la messa a fuoco della macchina fotografica. Per cercare di vedere nitidamente attraverso la storia, inizia a fotografare gli esiti del conflitto che ha coinvolto la Bosnia: le sue immagini raccontano il ritorno dei profughi, l'identificazione delle vittime da parte delle famiglie, la disperazione per chi si è perso, la solitudine e il senso di colpa di chi è sopravvissuto. La guerra però non è un male localizzato ma un cancro che migra e Ziyah decide di migrare con lui interessandosi a tutti quei paesi che si trovano coinvolti in scontri simili a quello che ha sbriciolato il suo: visita la Palestina, l'Afghanistan e la Cecenia. In posti come questi l'esistenza sembra arrestarsi o, per lo meno, avanzare con incredibile lentezza, trascinando dietro se macerie e fardelli di odio. La speranza si scontra con la negazione. Ma il dolore non può rimanere inerme ed afflosciarsi al suolo, sterile ed inutile. Il dolore può e deve lievitare ed esplodere nelle coscienze; può e deve avere un significato. "Soffre chi può", recita un adagio popolare. Sono parole che ben si prestano all'occasione. E potremmo anche lievemente modificarle: non solo soffre ma anche "guarda" chi può, guarda chi lo sa fare, chi resiste al vero di ciò che vede. Quando la realtà ci sfugge, ci vuole qualcuno che guardi per noi. E ci vuole qualcosa attraverso cui guardare, qualcosa che congeli il dolore che ancora brucia troppo. Ci vuole un aiuto. Questo aiuto può arrivare dalla fotografia. Laddove tutti gli altri preferirebbero chiudere gli occhi e dimenticare, la fotografia è rivelazione. Fotografare è guardare la vita tentando di scorgere un significato, un insegnamento, un monito lontano dalla retorica. Perché troppi eventi continuano a ripetersi, ancora e ancora, affermando che la storia non riesce a divulgare il suo insegnamento. Fotografare è un esercizio di memoria, una corsa contro il tempo e l'oblio. Far scattare il click dell'otturatore significa mettersi al servizio della storia perché i fatti non vengano infossati, manipolati, edulcorati. La consapevolezza di questo ruolo, forte nonostante la giovane età, guida le precise scelte stilistiche di Ziyah, e il formato quadrato delle foto o la scelta del colore diventano emblemi di contemporaneità. Le sue immagini non devono dare l'illusione del passato, non devono anestetizzare le ferite dell'odio, non dare il sollievo dello "scampato pericolo". Il giovane fotoreporter sceglie deliberatamente tagli moderni e dinamici uniti a tonalità calde e brillanti per esaltare la forza del presente, della verità, della vita e costringere ad una presa di coscienza che non deve appartenere a poche sfortunate regioni ma deve essere dell'umanità, tutta.
Sonia Borsato
responsabile Sa Domo Manna
dal Catalogo Menotrentuno_II, edizione 2008, Soter editrice
Foto: Ziyah Gafic
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