domenica 21 dicembre 2008

Intervista a Graciela Iturbide

©Salvatore Ligios, Graciela Iturbide


Dialogo con la fotografa messicana 
Graciela Iturbide



Graciela Iturbide è la vincitrice dell’Hasselblad award 2008. Il prestigioso premio le è stato conferito il 25 ottobre scorso aggiungendo così il suo nome al lunco elenco di fotografi internazionali che la Fondazione Hasselblad ha premiato dal 1980 ad oggi.
Nel dicembre 2007 la fotografa Messicana è stata gradita ospite di Su Palatu con cui ha collaborato per la realizzazione della mostra “Il Bagno di Frida” presentata al Castello Siviller di Villasor.
Per ricordare il lavoro condotto insieme e per festeggiare la recente premiazione, Graciela Iturbide ci ha rilasciato questa intervista dove racconta di sè, del Messico, della fotografia e del bisogno di mistero e ritualità che guida i suoi scatti


Ha dichiarato più volte che il suo maestro è stato Alvarez Bravo. Com’è avvenuto il vostro incontro? Qual è il più grande insegnamento, umano e artistico, che le ha lasciato?
Ho iniziato il mio percorso formativo all’Universidad Nacional Autonoma de Mexico, dove entrai per studiare cinema alla scuola di cinematografia. Lì conobbi Manuel Alvarez Bravo. Non solo potei frequentare il suo corso, ma lo seguii fino a che sono diventata la sua “achichincle”, che in Messico è il nome che si usa per indicare l’assistente. Ho imparato molto da Alvarez Bravo e non solo sulla fotografia ma soprattutto sulla cultura (letteratura, musica, arte popolare etc). È stato un maestro in tutti i sensi. Il mio rapporto con lui fu molto profondo; ho avuto l’opportunità di stargli vicino, frequentare la sua famiglia. Non è stato un professore, mai; è stato un maestro nel senso più completo della parola. Mi diceva sempre che per fare fotografie dovevo leggere le istruzioni della Kodak e che questo era sufficiente.

Quali altri maestri hanno avuto un’influenza importante nel suo percorso?
Ho avuto vari maestri a seconda del periodo. Christer Stromholm, che è uno dei miei fotografi preferiti, mi regalò due foto che adoro. A lui ho dedicato il mio libro edito dalla Fondazione Hasselblad in Svezia, suo paese d’origine. Mi sono sentita molto influenzata da Robert Frank, da Tina Modotti quando la incontrai e, naturalmente, da Alvarez Bravo, Cartier Bresson, Lartigue, Eugene Smith. Brassaï, che è uno dei fotografi decisivi nella mia vita, disse una frase che da molto tempo ispira il mio lavoro: “La vita non può essere catturata né dal realismo né dal naturalismo, ma solo dal sogno, dal simbolo o dall’immaginazione.” Nella vita tutto è legato dal dolore; l’immaginazione dotrebbe servire per dimenticare la realtà.

Un fotografo ha necessariamente un rapporto particolare con il concetto di tempo; concetto attraverso cui è possibile declinare le varie identità, come comunità e singoli individui.
Qual è il suo rapporto con il tempo, artisticamente e umanamente?
Maneul Alvarez Bravo mi rivelò un tempo poetico e messicano, com’era il suo. Mi diceva “Graciela, non c’è motivo di avere fretta, hay tiempo. Non ci si deve precipitare per esporre, ci si deve lavorare molto.” Per tutto il tempo che l’ho accompagnato mi ha dato l’opportunità di stargli vicino, di vedere come lavorava, di andare a comprare libri con lui, di ascoltare musica con lui, la musica di Bach. Mi ha aperto un mondo intero e, soprattutto, questo tempo così poetico e messicano mi ha segnato.

Provenire “dal sud del mondo” significa, per certi versi, esser cresciuti con un senso molto forte del mistero, della casualità e della magia del quotidiano, della vita.
Questi concetti influenzano la sua fotografia? Come?
Semplicemente vivo in Messico dove mi imbatto spesso nei simboli della mia cultura. Questo mi piace e, quando li incontro, cerco di catturarli con la mia macchina fotografica.

In un saggio intitolato "Todos Santos, Día de Muertos", Octavio Paz, parlando dei messicani, dice “Somos un pueblo ritual”. Pensandoci bene, anche la fotografia è un rituale: scartare la pellicola, introdurla nella macchina, accostarsi silenziosamente ai soggetti…sembrano passaggi di un danza sacra che un fotografo ripete 1000 volte nella vita ma sempre con la stessa cura e attenzione. Da donna, messicana e fotografa, qual è il suo rapporto con la ritualità?
Per me il rituale è ciò che salva l’uomo, l’umanità. È l’unica forma per dimenticare il quotidiano. Per esempio, in India, il rituale aiuta a piangere ma anche a donare dignità. Nei gaths di cremazione di Lucknow, sebbene ci fosse dolore, il rituale stava lì per aiutare la gente a togliere la vita con dignità. Non so se sono nel giusto, ma io la vedo così. Forse mi ha segnato l’educazione religiosa che ho ricevuto. Quando ero bambina, per allontanarmi dalla mia famiglia, andai in un convento di suore; era un ambiente di travestimenti che ritorna spesso nel mio lavoro: la morte, il travestimento, Giano con le sue due maschere… Non pretendo di mitizzare gli indigeni, come molta gente crede; quello che mi piace è il loro modo di mitizzare il quotidiano. Forse, in fin dei conti, la fotografia è per me un rituale. Partire con la macchina fotografica, osservare, prendere la parte più mitizzata dell’uomo, entrare nell’oscuro, rivelare, scegliere il simbolico… Non credo in niente, però prendo i rituali delle diverse religioni. In India, una volta entrai in un tempio dove la gente stava adorando un serpente d’argento. Non so cosa significasse quel rito, però mi colpì la grotta dove filtrava appena un filo di luce.

Da cosa nasce la sua fotografia? Qual è lo stimolo, la missione che la porta a guardare il mondo attraverso le lenti di una macchina fotografica? Qual’è il filo conduttore dei suoi lavori?
L’ossessione che abbiamo noi fotografi è quella di aggirarci per il mondo con il tema che portiamo dentro.

Esattamente un anno fa, nel dicembre del 2007, ha presentato a Villasor, in Sardegna, il suo lavoro “il bagno di Frida”. Può parlarci di questo lavoro? Com’è stato confrontarsi con un mito messicano come quello della Kalo? Da fotografa ma soprattutto da donna deve essere stato intenso, energeticamente prosciugante e esaltante allo stesso tempo….
Il bagno di Frida è stato aperto dopo 50 anni. Ho avuto la fortuna di essere invitata a fotografare gli oggetti di Frida, così ho cercato di interpretarli. Non sono una sua fan però la ammiro e per me fare questo lavoro, incontrare il suo dolore è stata un’esperienza incredibile.

Dicevamo della Sardegna. Lei ha avuto modo di soggiornarci per un breve periodo. Cosa le è rimasto di quella esperienza? Umanamente ma soprattutto artisticamente che idea le si disegnata nella mente? E fotograficamente, quale immagine le è rimasta?
La mia esperienza in Sardegna è stata fantastica. Ho conosciuto persone molto interessanti, ho avuto l’opportunità di studiare la civiltà nuragica, fare molte fotografie. Il mio sogno sarebbe quello di poter tornare per fotografare tutto quello che più mi ha colpito: la terra, la pietra, i cardi etc.
È un isola che veramente mi è entrata dentro e spero, con il tempo, di riuscire a fare un gran lavoro.

A questo punto della sua attività, con premi e importanti riconoscimenti ottenuti e con consensi internazionali, quali curiosità vorrebbe ancora soddisfare o quali idee vuole tentare di affermare attraverso la fotografia?
Semplicemente, come fotografa mi interessa fotografare ciò che incontro. Per me la macchina fotografica è un pretesto per conoscere il mondo.

Intervista raccolta da Sonia Borsato

sabato 13 dicembre 2008

DEMOLIZIONE Z

©Pablo Volta, Demolizione, 2008


DIETRO LE QUINTE



Il lavoro di Pablo Volta presente in questo catalogo è una breve sintesi di una campagna fotografica durata circa un anno. Un accumulo ossessivo di immagini riprese durante la fase di smantellamento degli impianti industriali dello zuccherificio di Villasor, diventato campo di battaglia, non solo ideale, per il fotografo che ha passato a setaccio le varie operazioni di demolizione della fabbrica “gloriosa”. (...)
Pablo Volta, saputo dell’imminente demolizione, non ci ha pensato troppo. Messo a tracolla lo zainetto degli obiettivi, armato di macchina fotografica digitale è partito dalla vicina San Sperate alla guerra degli scatti. Non senza aver prima fatto tappa alla corte della compagnia teatrale Fueddu e Gestu. (...) Come attore, lo stesso Pablo ha prestato il suo corpo e la sua esperienza fotografica in alcuni spettacoli messi in scena da Giampietro Orrù, regista della compagnia di Villasor.
La macchina digitale e l’esperienza teatrale diventano così per Volta l’occasione nuova per rimettere in discussione il proprio passato di fotografo famoso e ingabbiato in un ruolo che sembra non avere interesse a misurarsi con il presente. (...)
Ma la macchina digitale è una nuova pelle. Passato il primo stupore e compreso il nuovo approccio fotografico, la visione intriga e sorprende. Non tanto per lo scatto che documenta la caduta di una ragnatela di tubi o il sezionamento di una cisterna di ferro che sembra una balena squartata. Dopo un primo istintivo approccio di cosa è avvenuto il documento non interessa più. È l’emozione del raccontare, del far vedere che attrae l’occhio. L’intreccio della storia si perde nei tagli di luce, la ruggine delle lamiere contorte evoca richiami del passato. I macchinari al lavoro suggeriscono turbamento. Le immagini sembrano il risultato di una performance. Uno scambio continuo tra realtà e finzione, tra recitazione ed emozione. Documento e sentimento insieme. Quasi un ballo sabbatico.
L’analogico che viene soppiantato dal digitale è stata una bella sfida per il giovane Pablo. Migliaia di scatti grazie al sensore di silicio che sostituisce la pellicola, milioni di pixel che licenziano un modesto strato di granuli d’argento, il motore elettrico che asseconda lo sguardo predatore. Complimenti al neofita.
Questo lavoro è la testimonianza che il talento quando c’è non est abba e la voglia di confrontarsi con le nuove camere digitali non si misura con un dito, facendo un semplice click come suggeriva la pubblicità di tanto tempo fa, ma con l’occhio. Che nonostante le mirabilie del progresso tecnologico non può essere ancora sostituito da un robot, anche se di marca e alla moda.


Salvatore Ligios
curatore della mostra Demolizione Z

venerdì 12 dicembre 2008

DEMOLIZIONE Z

©Pablo Volta, Testa della pinza, 2008


Mostra fotografica di Pablo Volta
DEMOLIZIONE Z

al Castello Siviller di Villasor (CA)
dal 13 DICEMBRE 2008 all’ 11 GENNAIO 2009



Sabato 13 dicembre 2008 alle ore 18 si inaugura nelle sale del Castello Siviller di Villasor Demolizione Z, mostra fotografica di Pablo Volta organizzata dalla compagnia teatrale Fueddu e Gestu di Villasor in collaborazione con Su Palatu e il Comune di Villasor.

L’esposizione presenta quaranta immagini digitali a colori; quaranta scatti insoliti nel percorso di un fotografo che, come Pablo Volta, si è mosso nel mondo del fotoreportage restando fedele alla pellicola; quaranta fotografie che rivelano un percorso che fa sconfinare la fotografia in territori espressivi limitrofi.
Come evidenzia il curatore Salvatore Ligios nel testo del catalogo «le immagini sembrano il risultato di una performance. Uno scambio continuo tra realtà ed emozione. Documento e sentimento insieme».

L’inaugurazione sarà preceduta dagli interventi del sindaco di Villasor Walter Marongiu, dell’assessore alla cultura Concetta Sangermano, del regista teatrale Giampietro Orrù, del curatore Salvatore Ligios e del fotografo Pablo Volta.

Catalogo in mostra a cura della Soter editrice

L’esposizione è organizzata in collaborazione con il Comune di Villasor, la Regione Autonoma della Sardegna, la Provincia di Cagliari, la compagnia teatrale Fueddu e Gestu, Fratelli Baraldi spa, Su Palatu-spazio culturale per la fotografia.

giovedì 4 dicembre 2008

YANN GROSS

©Yann Gross, Wrestling dream, 2007

YANN GROSS


vincitore del premio Descubrimientos PHE

PHotoEspaña 2008


Yann Gross, uno dei 15 protagonisti della seconda edizione di MENOTRENTUNO, rassegna dedicata alla giovane fotografia europea, ha trionfato all'edizione 2008 del festival PHotoEspaña vincendo l'ambito premio Descubrimientos.


Yann Gross (Vevey, Svizzera, 1981) ha studiato arte e design e, successivamente, fotografia all'Università di Arte e Design a Losanna (Svizzera). Nel 2008 è diventato membro del collettivo di fotografia Piece of Cake (PoC). Yann ha raccontato storie di frontiera, indagando la vita di chi vive in "zone di passaggio" dove del sogno americano, rincorso attraverso le immagini televisive, arriva solo l'eco.


mercoledì 3 dicembre 2008

APPROSSIMAZIONI

©Tano Siracusa, Porto Angel
APPROSSIMAZIONI

mostra fotografica di
TOTO' BONGIORNO, FRANCO CARLISI, GIANDOMENICO MARINI, TANO SIRACUSA

Sabato 29 settembre inaugura nelle sale di Su Palatu Approssimazioni, mostra che si inserisce tra le collaborazioni strette dalla spazio sardo con alcune delle più interessanti realtà editoriali italiane dedicate alla fotografia.

Dopo Il Fotografo, che aveva proposto negli spazi di Su Palatu la mostra Estremi curata da Sandro Iovine, è ora il direttore del trimestrale siciliano Gente di fotografia, Franco Carlisi, a proporre una selezione di quattro fotografi.

Approssimazioni si presente dunque come molto più che un gemellaggio tra le due isole regine del Mediterraneo, un meeting dove la Sardegna-Su Palatu accoglie la Sicilia-Gente di fotografia: guardando le fotografie di Totò Bongiorno, Franco Carlisi, Giandomenico Marini e Tano Siracusa è possibile compiere un percorso attraverso il concetto stesso di "identità", un viaggio che dal sud della nostra nazione si estende al sud del mondo, geograficamente e concettualmente inteso.

L'inaugurazione sarà preceduta dagli interventi del sindaco di Villanova MOnteleone Sebastiano Monti, il direttore editoriale di Gente di fotografia Franco Carlisi e del direttore di Su Palatu Salvatore Ligios.
Saranno presenti i fotografi Totò Bongiorno, Giandomenico Marini e Tano Siracusa.